martedì 2 dicembre 2008

Energia, ombre cinesi

di Vito L'Erario

Le posizioni dell’attuale Governo di centro destra denotano un agire in retroguardia rispetto alle indicazioni dell’UE: insieme ai Paesi dell’Est europeo è l’unica voce stonata e al tempo stesso controcorrente sulla lotta ai cambiamenti climatici.Il pacchetto clima negoziato dai 27 Paesi membri dell’UE mira a ridurre il 20% di CO2, aumentare del 20% i consumi di energia da fonti rinnovabili, e aumentare del 20% l’efficienza energetica entro il 2020. L’Italia negli ultimi anni ha gia di per se aumentato le emissioni di gas climalteranti in atmosfera del 7,9% rispetto al trend positivo di drastica riduzione di gas serra degli altri Paesi membri; un aspetto che denota la presenza di un industria assistita, poco innovativa e al tempo stesso inquinante. L’Italia chiede la rinegoziazione perché il pacchetto clima-energia va a discapito delle imprese: un salasso in pratica per un modo di intendere e volere arcaico. Che il Bel Paese sia ormai una sorta di contenitore vuoto in tema energetico è oramai risaputo. Non esiste una politica energetica seria che guardi alle reti corte, in particolar modo sulla promozione delle fonti rinnovabili con rete corta.

Il nostro Paese pur essendo dislocato nel bacino del Mediterraneo, dove l’offerta di zone a forte irraggiamento solare non mancano, vi sono poche e timide iniziative politiche ed economiche, e delle volte anche distruttive, che mirano a sviluppare la produzione di energia dal “Dio Sole”. Un esempio su tutti è la bocciatura da parte della Commissione Ambiente della Camera sulle proroghe degli sgravi fiscali del 55% per gli interventi sul risparmio energetico e la promozione delle fonti rinnovabili in edilizia. Anche i più illustri esperti mondiali come Rifkin, economista di grosso calibro, sono convinti della necessità di agire attraverso una “rivoluzione industriale” che punti maggiormente sulla ricerca dei nuovi materiali, della diffusione delle reti corte, ad una maggiore presa di coscienza del problema dell’autonomia energetica che parta dal basso. Il Governo Berlusconi, dal canto suo, punta a risolvere il problema dei rifiuti attraverso il meccanismo dei CIP6, ora estesi anche all’incenerimento per mezzo dei termovalorizzatori.
Le Società titolari dell’impiantistica potranno in questo modo usufruire del contributo statale per effetto di un provvedimento-emendamento presentato in parlamento dall’attuale Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. In questo modo si ampliano i benefici statali relativi alla promozione di un rinnovabile assimilato ai rifiuti: la frazione secca dei rifiuti (carta e plastica) differenziata diviene combustibile ad alto contenuto energetico da poter poi utilizzare per produrre energia elettrica. Una stortura tutta italiana che allontana il nostro Paese dal resto d’Europa.Allo stesso modo diventa paradossale e pericoloso aver trasmutato il recupero dei rifiuti in recupero energetico. In questo modo si è dato il via anche all’utilizzo del CDR (Combustibile Derivato da Rifiuti) per le centrali a biomasse, uscendo clamorosamente fuori dal concetto di biomassa inteso come scarto vegetale da attività selvicolturali.

Rendere un Paese autonomo energeticamente non significa puntare sull’impiantistica con mega centrali, inceneritori, eolico selvaggio, false centrali a biomassa, un minestrone affaristico-speculativo al sol beneficio delle tasche di un certo modo di fare impresa, ma rendere libero il cittadino di poter scegliere l’energia rinnovabile da produrre e consumare in proprio, con il mini eolico, con le fattorie energetiche della biomassa (quella vera), con il solare-fotovoltaico. Superare le reti di grande distribuzione è una sfida possibile da perseguire grazie ad un coinvolgimento diretto del mondo industriale e para-industriale. Una società che decide di puntare sulla produzione di nuovi materiali applicati alla bioedilizia ne è un esempio tangibile e perseguibile, quindi possibile da attuarsi.Ma rete corta significa anche decidere e attuare una riconversione dei trasporti da gomma a rotaia, attraverso un vero ammodernamento infrastrutturale delle reti esistenti; dei mezzi di trasporto pubblici; dello stesso comparto automobilistico italiano che dovrebbe cominciare a puntare verso produzioni pulite, auto ibride per poi raggiungere la meta dell’idrogeno.La politica può fare la sua parte con provvedimenti ad hoc, responsabili e quindi coscienziosi, come l’incentivazione della ricerca applicata alle nuove tecnologie e dei nuovi materiali, a discapito delle vecchie ed obsolete tecniche di produzione energetica come il carbone e il petrolio, fonti fossili da cui derivano i maggiori problemi di emissioni e quindi dell’allontanamento dagli obiettivi prefissati dal prima e dopo Kyoto. Ma esiste anche il paradigma del nucleare propinato come soluzione immediata per far fronte al gap energetico italiano. Un azione però inconsistente, in quanto si cerca di far spacciare come realistico lo scenario di “eco centrali” nucleari da attivare il più presto possibile, come soluzione tra le diverse alternative di rischio: combattere i cambiamenti climatici con gli incalcolabili rischi delle centrali nucleari. Un agire di questo Governo che va verso quella direzione.Rinegoziare servirebbe solo a perdere ancora tempo, quello con cui devono confrontarsi gli uomini che quotidianamente devono competere, quelli che devono far girare i mercati, l’economia di un Paese in forte ritardo rispetto al resto d’Europa.

Che la nostra possa essere definita una sorta di economia residuale è un concetto che si manifesta proprio nel settore energetico ancora relegato al diritto minerario (come ai tempi del vecchio West) e, cosa ancor più grave, l’imposizione politica che permette di sottostimare volutamente i pericoli derivati dal nucleare e amplificare la catastrofe ambientale, a danno dei rimedi (risparmio energetico e fonti rinnovabili) messi dietro l’angolo di una profonda ombra.

venerdì 28 novembre 2008

Veleni, è allarme Stanic

di Paolo Russo

La Stanic continua ad inquinare. L´ex raffineria Eni, ormai inglobata nel centro di Bari, non è solo un brutto monumento di archeologia industriale. Questa fabbrica chiusa dal 1976 continua a produrre veleni. Lo attestano le analisi condotte dall´Arpa e rese note ieri. Rispetto ai test compiuti nel 2001 il livello d´inquinamento della falda e dei terreni a ridosso del villaggio del Lavoratore sta drammaticamente aumentando.

Per questo motivo ieri l´assessorato regionale all´Ecologia ha disposto un intervento di "Messa in sicurezza d´emergenza". La procedure "Mise" è stata ufficialmente aperta per impedire che i metalli pesanti e gli altri inquinanti presenti nella falda possano scivolare all´esterno della raffineria. Sono questi drammatici risultati emersi ieri dalla prima riunione del comitato regionale che ha il compito di valutare la richiesta di caratterizzazione ambientale richiesta nei mesi scorsi dall´Eni. L´iter per la bonifica della raffineria Stanic, avviato timidamente sul finire degli anni Novanta, nel 2001 ha conosciuto il suo ultimo passaggio ufficiale.

Ma la procedura, senza ulteriori sollecitazioni da parte della multinazionale italiana dell´energia, si è arenata tra le pastoie burocratiche. Nel frattempo - la bomba ecologica che si pensava a riposa da oltre 30 anni - ha continuato a disperdere nell´ambiente i suoi veleni. E nuove inquietanti scoperte sono state fatte all´interno di quella ciminiera che molti consideravano una sorta di vulcano spento. Il magma di veleno dello Stanic, invece, continua a ribollire.

Nel 2004, all´interno della raffineria, furono rinvenuti più di cento sacchi di amianto, abbandonati in vecchi capannoni o lasciati all´aperto. Un campanello di allarme che portò nei mesi successivi, ad una scoperta ancora più nefasta: centinaia di metri di tubature interrate della raffineria sono realizzate con l´eternit. Per questo il processo di bonifica di questa bomba ecologica è diventato molto più complesso. "E´ una situazione problematica", ha commentato l´assessore regionale all´Ambiente, Michele Losappio.

La commissione regionale che si è riunita ieri ha espresso la necessità di una intensa campagna di monitoraggio. La Regione ha chiesto ufficialmente all´Eni di adoperarsi per mettere in atto una bonifica del suolo e della falda, poiché, si legge nel fascicolo esaminato ieri dai tecnici ambientali dell´ente, oltre il 50 per cento dei campioni di terreno prelevati dall´Arpa sono risultati contaminati. Una percentuale cresciuta rispetto ai campionamenti eseguiti nel 2001. "bene ha fatto la regione a disporre la messa in sicurezza d´emergenza - ha commentato il direttore regionale dell´Arpa, Giorgio Assennato - perché una fabbrica così inquinata in piena città è un vero pericolo pubblico".

E´ stata la stessa Eni a richiedere alla Regione di aprire la procedura per il piano di caratterizzazione. Un atto formale propedeutico all´avviamento di un processo di bonifica. Probabilmente, la multinazionale italiana dell´energia vuole conoscere il prezzo da pagare per far ritornare "disponibile" la vasta area che occupa al confine tra il centro di Bari e il quartiere San Paolo. L´ipotesi più accreditata è che l´Eni abbia ricevuto un´offerta per l´acquisto del suolo. In passato erano emerse le più disparate proposte di riconversione, dal parco giochi alla nuova Fiera del Levante. Per il momento, la Stanic resta solo, un pericolo ambientale.

Petrolio amaro

di Antonio Bavusi

Amaro. Viene così definito il petrolio che presenta un alto contenuto di zolfo ed altre sostanze quali i solfati ed i disolfiti. Il petrolio, dopo l’estrazione, richiede una prima purificazione presso il centro oli con particolari processi di idro-desulfurizzazione. Lo scopo del processo chimico è quello di rendere il greggio meno melmoso e quindi adatto al trasporto negli oleodotti, eliminando le sostanze corrosive come l’idrogeno solforato o acido solfidrico (formula chimica H2S), responsabile della rottura dei tubi.

Il petrolio estratto dall’ENI in Val d’Agri ed in misura maggiore quello che estratto dalla Total nella Valle del Sauro-Camastra, contiene percentuali elevate di zolfo che richiedono un pre-trattamento, prima di essere convogliato nell’oleodotto principale Viggiano-Taranto. Sui danni alla salute umana causati dall’idrogeno solforato si sofferma un documento prodotto dai professori Maria Rita D’Orsogna e Thomas Chou docenti rispettivamente del “Department of Mathematics, California State University al Northrige, Los Angeles” e del “ department of Biomathematics della D.Geffen School of Medicine, University of California, Los Angeles”. Il rapporto redatto dai due professori statunitensi si propone di illustrare ad un pubblico non specializzato gli effetti sulla salute del H2S, un sottoprodotto del processo di idro-desulfurizzazione del petrolio, anche alla luce dei progetti ENI ad Ortona, in Abruzzo, ove è prevista la realizzazione di un Centro Oli simile a quello di Viggiano in Basilicata. L’evidenza medico scientifica – scrivono i professori – mostra come anche un contatto quotidiano con basse dosi di H2S dell’ordine di grandezza delle normali immissioni nell’atmosfera da un centro idro-desulfurizzazione (ndr.come quello di Viggiano), possa essere ad alta tossicità sia per la salute umana che per quella animale e vegetale.

L’H2S, classificato ad alte concentrazioni come veleno, a basse dosi può causare infatti danni irreversibili e disturbi neurologici, respiratori, motori, cardiaci e potrebbe essere collegato ad una maggiore incorrenza di aborti spontanei nelle donne stimolando la comparsa di tumori. E’ un gas incolore, facilmente infiammabile, tossico poichè impedisce all’ossigeno di arrivare alle cellule, di odore sgadevole. E’ inoltre fortemente inquinante e può essere assorbito dall’uomo tramite la respirazione, la digestione ed il contatto con la pelle e le mucose. Le conclusioni del rapporto si basano su una serie di dati scientifici e documentate osservazioni effettuate in località in varie parti del mondo interessate dall’estrazione e dal trattamento del petrolio. Tramite varie reazioni chimiche esso si trasforma in SO2, diossido di zolfo, che è anch’esso un inquinante ambientale. Presso il Centro Oli viene trasformato in zolfo tramite un complesso sistema di separazione noto come “processo Claus”. Perdite, residui ed emissioni nell’ambiente sono inevitabili nei processi che riguardano il petrolio. I cosiddetti “tail gasses”, ovvero i gas residuali sono carichi di residui di H2S che – secondo lo studio - vengono immessi in un inceneritore (la fiamma del centro oli dovrebbe bruciarli) e da qui dispersi nell’atmosfera. “il gran numero di brevetti rilasciati di recente- è scritto nel rapporto – riguardo a nuove tecniche che cercano di innalzare la soglia di recupero dell’H2S, è una prova del fatto che il problema di un totale e corretto smaltimento dell’idrogeno solforato è ancora irrisolto”. A partire dal pozzo, durante il trasporto negli oleodotti di collegamento con il centro oli e lungo l’oleodotto Viggiano-Taranto, l’idrogeno solforato potrebbe inquinare non solo l’area ma anche il suolo e l’acqua entrando in modo subdolo ed inesorabile nei cicli biologici umani.

Lo studio riporta anche incidenti documentati dal WWF che hanno riguardato alcuni pozzi in Basilicata (well blowouts) come quelli di Policoro, Monte Foy e Monte Alpi 1 con due incidenti rilevanti nel 2002 e nel 2005 che hanno riguardato il Centro Oli di Viggiano che costrinsero l'ex presidente della Regione ad emettere ordinanze urgenti di sospensione dell'attività del centro oli di Viggiano che però prosegui, nonostante tutto, così come evidenziato dal Dossier del WWF.
Incidenti gravissimi, sui quali non sono stati mai forniti i dati relativi all’emissione dell’H2S denotando insufficienti azioni di monitoraggio ambientale, prevenzione del rischio e screening medici costanti sulla popolazione residente che, come quella residente in prossimità del centro oli di Viggiano, ha presentato diversi esposti alla Magistratura sfociati in un processo tutt’ora in corso contro dirigenti dell’ENI. La possibilità di venire in contatto con il micidiale idrogeno solforato – è scritto nel rapporto - aumenta notevolmente per le popolazioni in vicinanza dei centri di lavorazione del petrolio. Tutt’oggi sorprende constatare come manchino dati ufficiali di rilevazione dell’H2S in Basilicata ed in Val d’Agri. Nelle vicinanze di centri di lavorazione del petrolio, fra cui impianti di idro-desulfurizzazione (centro oli) i livelli di H2S possono essere dunque 300 volte maggiori che in una normale città del mondo occidentale. Le centraline di monitoraggio, sia pubbliche sia dell’ENI presenti in Val d’Agri e nei pressi del centro oli di Viggiano, diffondono esclusivamente i dati relativi ad alcuni parametri. Ma non quelli relativi all’idrogeno solforato che non si conosce se vengano o meno rilevati e da chi. Non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità consigli di fissare il limite di H2S a 0,005 ppm (parti per milione). Negli Stati Uniti il Governo Federale raccomanda un limite di 0,001 ppm con limiti differenti fissati da Stato a Stato (es. California=0,002 ppm, Massachussetts= 0,006) mentre in Italia il limite massimo di H2S, secondo il decreto ministeriale del 12 luglio 1990, è di 10 ppm, quando è ormai noto in letteratura medica – dichiara la prof.ssa Maria Rita D’Orsogna – questo valore è non solo “diecimila volte” più alto dei valori consigliati dall’OMS già applicati negli USA, ma causa danni irreversibili alla salute umana.

Ofanto, il parco rubato

di Stefano Savella

Per gran parte dell’opinione pubblica, tutto ha inizio il 25 marzo 2008. In serata, nella centrale Piazza Moro a Barletta, storico luogo d’incontro tra agricoltori e manovalanza, oltre che di battaglie passate del mondo contadino, è in programma un comizio cittadino de “La Sinistra L’Arcobaleno” con un centinaio di uditori. Siamo a pochi giorni dalle elezioni politiche: sul palco si susseguono gli interventi di candidati locali, per circa un’ora e mezza. Fino a quando a prendere la parola, sul palco, arriva Nichi Vendola, presidente della giunta regionale pugliese. E si scatena la protesta: tra urla ingiuriose e fischi assordanti, Vendola attende un momento di pausa dei contestatori che non arriva. Arriva invece la polizia in assetto antisommossa, perché i contestatori cercano di avvicinarsi al palco e uno di loro riesce quasi a salirvi inveendo contro Vendola. Che cerca, intanto, al microfono, di calmare gli animi, spiegando ai contestatori di aver già fissato un incontro in Regione coi loro rappresentanti. Inutilmente: e lascia Barletta inseguito dai fischi della piazza spaccata a metà. Solo dopo quella sera diventa chiaro che i terreni della valle dell’Ofanto sono tornati a rappresentare la preda di un cumulo di interessi speculativi assai variegati, che con le contestazioni rumorose unite a più segrete attività di lobby cercano di delegittimare ogni attività di tutela ambientale di quel territorio.

Per la verità già pochi giorni prima, nel corso di un comizio del Popolo delle Libertà, gli agricoltori avevano fatto sentire la propria voce nella stessa piazza; ma nonostante in Consiglio regionale, all’atto dell’approvazione del Parco regionale dell’Ofanto nel dicembre 2007, i partiti del centro-destra si fossero espressi con «un’astensione non di contrarietà ma di attesa», dunque con atteggiamento non ostruzionistico, dinanzi ai rumori della piazza i dirigenti pugliesi del PdL non avevano avuto remore a far salire sul palco del loro comizio i rappresentanti dei contestatori e a dichiarare di far proprie le loro richieste di riperimetrazione dei confini del Parco. Una riperimetrazione che puntava, in realtà, senza mezzi termini all’affossamento pressoché totale dell’intero Parco fluviale, essendo la zona a ridosso dell’alveo del fiume già protetta, benché solo sulla carta, in quanto area SIC (sito d’importanza comunitaria) dal 2002.

L’approvazione del Parco regionale dell’Ofanto da parte della Regione Puglia alla fine del 2007 è però solo l’ultimo atto di un percorso legislativo e giudiziario che trova le sue radici nel travaglio e nei danneggiamenti continui perpetrati ai danni dei terreni a ridosso dell’alveo dell’Ofanto. Già a partire dalla metà degli Settanta, e senza alcun intervento riparativo o di controllo da parte degli enti preposti, due boschi golenali sono scomparsi, sostituiti da ettari e ettari di vigneto; e il venir meno di boschi e golene causò, in particolare alla fine degli anni Novanta, la preoccupazione per le annuali e sempre più pericolose piene fluviali che arrivavano a sfiorare i quartieri più a nord della città di Barletta.

Nemmeno l’indicazione, pur generica, in una legge regionale del 1997 figlia della Direttiva Habitat 92/43 della Comunità Europea, della foce dell’Ofanto come area naturale protetta, destinata con un ritardo di dieci anni a diventare Parco regionale, servì a mobilitare la cittadinanza contro coloro, agricoltori e operatori edili, che da almeno due decenni contribuivano a saccheggiare l’unico vero polmone naturalistico della zona. Si dovette così attendere l’intervento della magistratura tranese, da sempre particolarmente attenta ai reati ambientali, come dimostrano anche inchieste giudiziarie più recenti.

Nel 2003, per la prima volta in Italia, il gip del tribunale di Trani, Michele Nardi, aveva provveduto al sequestro di ampi tratti dell’alveo di un fiume, l’Ofanto appunto, accogliendo i riscontri delle indagini coordinate dal pm Antonio Savasta nell’inchiesta “Fiume rubato”. Secondo l’accusa, i danni perpetrati da ben 115 agricoltori di Barletta e Canosa avevano contribuito in maniera determinante al dissesto idrogeologico di 200 ettari dell’area protetta. In particolare, le accuse variavano dal disboscamento e occupazione abusiva dei terreni, alla costruzione di tendoni e opere edili senza alcuna autorizzazione (tra cui una piattaforma in calcestruzzo che attraversava in senso trasversale al deflusso delle acque), dalla coltivazione intensiva in aree demaniali di uva e ortaggi, allo sversamento dei reflui contaminati da concimi chimici nel fiume, le cui acque venivano poi riutilizzate per l’irrigazione delle stesse coltivazioni. Solo in seguito alla missiva indirizzata al settore Genio Civile della Regione Puglia dal Procuratore della Repubblica di Trani, Nicola Barbera, nel giugno 2003, si invitava l’ente «a predisporre e far attuare tutti gli atti amministrativi necessari per la riacquisizione da parte della regione Puglia di tutti i fondi occupati ed alla remissione in pristino dello stato dei luoghi interessati da una grave situazione di dissesto idrogeologico derivato dalla distruzione delle colture boschive riparali». Il Genio Civile, per mezzo dell’assessorato regionale ai Lavori pubblici, decide finalmente di agire, e nel novembre ordina entro 60 giorni lo sgombero dei terreni demaniali dell’alveo del fiume e la distruzione delle colture, oltre al ripristino delle condizioni originarie. Ma alla scadenza del termine ultimo, il Genio Civile torna in sopralluogo sull’alveo del fiume, e scopre che nulla è cambiato. È così che il 31 marzo 2004 la procura tranese convoca gli interessati per gli interrogatori di rito, mentre il 25 gennaio 2005 comincia a tutti gli effetti il processo a carico di 115 persone, tra i quali 92 agricoltori, accusati di aver «arbitrariamente occupato» il letto del fiume, «pur essendo la zona di interesse comunitario e quindi da considerarsi area naturale protetta».

È sulla spinta di questi avvenimenti che si riapre il dibattito sulla realizzazione del Parco regionale del fiume Ofanto, la cui istituzione era già genericamente indicata dalla prima menzionata legge regionale del 1997, ma bloccata dall’inadempienza degli enti locali, a partire dai comuni interessati (in particolare Barletta, Canosa di Puglia, Margherita di Savoia), che oltre a non attivare controlli di polizia municipale sui terreni abusivamente occupati e depredati, non hanno svolto in quegli anni cruciali alcuna attività concreta d’impegno per la realizzazione del Parco: è evidente che i due comportamenti rientrano a far parte di un’unica finalità, quella di far finta di nulla per continuare a cementificare impunemente all’interno dell’area protetta. Nel 2000, la Provincia di Bari comincia lo studio per la perimetrazione dell’area protetta indicata dalla legge regionale del 1997 ai fini della creazione di un vero e proprio Parco regionale. Il gruppo di lavoro, guidato dal prof. Borri del Politecnico di Bari, amplia il territorio ricadente nell’area protetta dalla sola foce del fiume a tutto il territorio pugliese nel quale scorre il fiume Ofanto, in modo da operare una protezione più efficace dell’area. È sempre questo gruppo di lavoro a porre le basi per l’istituzione di un’area SIC (sito d’importanza comunitaria) in un’area di riserva integrale di circa 10.000 ettari, quella, per intenderci, più a ridosso dell’alveo del fiume. Ottenuta la relazione da parte del gruppo di lavoro, il presidente della Provincia di Bari, Marcello Vernola, eletto con una coalizione di centro-sinistra prima di diventare, nel 2004, europarlamentare di Forza Italia, convoca una conferenza di servizio con gli 11 comuni ricadenti all’interno dell’area SIC. Saranno pochissimi, tuttavia, i rappresentanti dei comuni a presentarsi alla riunione. Il presidente della Provincia invia così il piano di studio direttamente in Regione. Nell’agosto del 2002 una legge regionale si limita a recepire il piano elaborato dal gruppo di lavoro della provincia di Bari selezionando ufficialmente l’area come sito d’importanza comunitaria (SIC): l’operatività del sito è tuttavia confermata definitivamente soltanto con l’entrata in vigore del Decreto Ministeriale del 21 luglio 2005. L’indicazione dell’area SIC proposta dalla regione Puglia nel 2002 (in cambio di sostanziosi contributi economici ricevuti dall’Unione Europea per la conservazione ambientale dell’area), pone le basi per l’apertura dell’inchiesta della Procura di Trani, che fa leva sull’equiparazione dell’area SIC a un’area parco, rendendo così completamente fuori legge gli avamposti abusivi degli agricoltori a ridosso del fiume. Pur recependo le indicazioni del piano di lavoro provinciale sull’area SIC, la Regione non dà tuttavia seguito alla perimetrazione proposta dallo stesso gruppo di lavoro per la creazione del Parco regionale, sul quale calerà il silenzio per tutti gli anni della giunta regionale guidata da Raffaele Fitto.

L’operatività sul fronte ambientale dei comuni dell’area protetta in questi anni è sostanzialmente nulla. Nel settembre 2003, pochi giorni dopo i provvedimenti di rinvio a giudizio, il presidente della provincia Vernola e il sindaco di Barletta Salerno effettuano un sopralluogo sui luoghi posti a sequestro dalla procura tranese con telecamere e giornalisti al seguito. Le condizioni raccontate da un articolo della «Gazzetta del Mezzogiorno» del giorno successivo, il 5 settembre, sono lo specchio del degrado: «Rampe di accesso ai luoghi più remoti dell'alveo fluviale, strade abusive che lo attraversano, argini manomessi, decine e decine di ettari coltivati e il fiume assediato, stretto in poche decine di metri. Scomparse le anse, le golene, il bosco ripariale ed intere isole fluviali. [...] Un altro ponte abusivo fu realizzato poco più a valle, nella zona di Canne della Battaglia, tempo fa ma fu divelto dalle piene invernali. Se dalla zona mediana si procede verso la foce le aggressioni al fiume diventano più frequenti con le rampe di accesso che sfondano l'argine in più punti per garantire l'accesso ai vigneti realizzati fin sulle rive del fiume. Il bosco ripariale è ormai ridotto a ben misera cosa e nel poco spazio che gli è stato concesso si possono notare rifiuti che vanno dagli elettrodomestici alla carcasse delle auto abbandonate dai ladri. Con una situazione del genere un'eventuale piena di portata eccezionale potrebbe avere gravissime conseguenze su tutta la zona circostante il fiume». Vernola e Salerno, tuttavia, anziché prendersi la propria parte di responsabilità per i mancati controlli, si limitano a condannare l’immobilismo della Regione. Fanno testo le parole del sindaco Salerno, la cui amministrazione aveva pochi anni prima snobbato il piano di lavoro elaborato dal gruppo di lavoro della Provincia: «Esistono idee e progetti che mirano a salvaguardare il fiume. Non si deve far altro che realizzarli».
Il processo a carico dei 115 tra agricoltori e complici giunge a termine nel marzo del 2006. La pubblica accusa richiede dai tre ai quattro mesi di reclusione per molti degli imputati, alcuni dei quali accusati anche di associazione a delinquere, ma, soprattutto, richiede la restituzione dei fondi illecitamente occupati, la loro riduzione in pristino e la confisca delle colture. Il giudice monocratico del Tribunale di Barletta, nella sentenza del 10 marzo 2006, non tiene conto delle richieste di natura penale e si concentra sul recupero del territorio: 90 dei 92 agricoltori vengono condannati a cinquecento euro a testa di multa, alla confisca delle piantagioni, alla restituzione al demanio dei fondi abusivamente coltivati dopo aver ripristinato lo stato dei luoghi e al risarcimento pari al 50 per cento del danno arrecato. L’altra metà dei risarcimento, infatti, è a carico degli stessi enti locali [comuni, province e regione] che non avevano attivato negli anni passati alcun tipo di controllo, permettendo che avvenisse la coltura di terreni demaniali e il conseguente scempio ambientale. Eppure quegli stessi enti locali si erano posti come parte civile nel processo, insieme alla Regione Puglia, all’ufficio regionale del demanio e alle associazioni ambientaliste che per prime avevano denunciato gli abusi. A tutt’oggi il procedimento giudiziario è fermo presso la corte d’appello di Trani, ma il sopraggiunto indulto ha reso nulle le disposizioni della sentenza di primo grado, rendendo in sostanza inutile il proseguimento del processo di secondo grado. A tutt’oggi gran parte di quei contadini occupa ancora abusivamente le aree a ridosso del fiume.

Dalla metà del 2006, tuttavia, l’assessorato all’Ecologia della Regione Puglia, che dopo la vittoria di Nichi Vendola alle elezioni regionali del 2005 è guidato da Michele Losappio (PRC), convoca una serie di Conferenze di servizi con gli enti locali e gli attori interessati (associazioni di agricoltori, forze imprenditoriali, consorzi di bonifica, comunità montane) per imprimere un deciso passo in avanti nella formazione del Parco regionale, che avrebbe una volta per tutte sancito l’inviolabilità dell’area dinanzi alle aggressioni di diverso genere (dalla speculazione edilizia all’occupazione abusiva delle aree golenali, dall’inquinamento delle acque che rende il fiume una fogna a cielo aperto alla distruzione dei boschi riparali) avvenute per decenni. Il percorso viene trova un primo compimento col Disegno di legge della giunta regionale n. 14 del 21 maggio 2007, per l’istituzione «del parco regionale “Fiume Ofanto”». In base al suddetto Disegno di legge, il parco viene diviso in due zone, una zona 1 (estesa per 10.360 ettari) di rilevante interesse naturalistico e di protezione dell’avifauna esistente e di passo, coincidente in pratica con le aree golenali, e una zona 2 (estesa per oltre 16.000 ettari) di interesse naturalistico, paesistico e storico-culturale che prevede un modello di promozione sostenibile per il territorio e una riduzione degli impatti ambientali delle attività antropiche. Il plauso delle associazioni ambientaliste al Disegno di legge, tuttavia, non fa venir meno gli ostacoli al percorso per l’approvazione definitiva del provvedimento in consiglio regionale e per l’effettiva attuazione del parco. Nei paesi del costituendo parco si agitano correnti di diversa provenienza volte a ostacolare il percorso finale elineato dalla Regione.

Proprio pochi mesi dopo l’istituzione del parco si manifesta il problema principale che negli anni precedenti ne aveva rallentato il percorso: malgrado la presenza di un’area protetta ricadente nel territorio del Piano regolatore di una città, che avrebbe dovuto fermare lottizzazioni selvagge all’interno di quest’area, nel novembre 2007 iniziano i lavori di costruzione di un imponente complesso di quattromila appartamenti, con 450 mila metri cubi di cemento, nel territorio di Margherita di Savoia, a meno di 300 metri dalla foce del fiume Ofanto, in un terreno ricadente in parte all’interno dell’area SIC e senza l’autorizzazione dell’Autorità di bacino.
Il percorso per l’istituzione del parco va tuttavia avanti, e arriva il 5 dicembre 2007 all’approvazione definitiva in Consiglio regionale, con il voto favorevole della maggioranza e l’astensione, come si è già detto, dell’opposizione. Va sottolineato come prima dell’approvazione in Consiglio regionale le uniche osservazioni sulla perimetrazione del parco erano state avanzate dai comuni di Spinazzola e di San Ferdinando di Puglia. Né il comune di Barletta né nessun altro comune interessato propone, nelle conferenze di servizi precedenti l’approvazione definitiva, dunque fino al dicembre 2007, alcuna riperimetrazione. Ne è dimostrazione il commento a caldo, a margine della seduta consiliare, del consigliere regionale di maggioranza Giuseppe Dicorato (Pd), che è anche consigliere comunale e importante figura della politica barlettana degli ultimi vent’anni. Dicorato sottolinea infatti con entusiasmo «il coraggio e la determinazione» dell’assessore regionale all’ecologia nella concertazione della legge che «ridà dignità a un fiume saccheggiato e avvelenato». A favore del provvedimento vota anche il secondo consigliere regionale eletto a Barletta, Giuseppe Cioce (Pd).

Il 2008 si presenta perciò come l’anno decisivo per la composizione del consorzio temporaneo degli enti locali che dovrà presentare una bozza di statuto per poi giungere all’istituzione dell’Ente gestore, atto finale per l’operatività del parco regionale. Ma nonostante alcuni primi riscontri positivi nel mese di gennaio, già da febbraio comincia a delinearsi pubblicamente e con manovre di pressione più coperte, una variegata e ampia coalizione di forze che sempre più apertamente esprime il proprio dissenso sulla realizzazione del parco dell’Ofanto. La ricostruzione degli articoli di stampa rende chiaro come, tra i sindaci dei comuni interessati, fino a gennaio non fossero presenti, almeno ufficialmente, reali preoccupazioni sul percorso da seguire per la definitiva istituzione del parco. Il 28 gennaio nella sala consiliare di Canosa di Puglia si riuniscono comuni e province per l’istituzione del Consorzio temporaneo di gestione. In quell’occasione tutti i rappresentanti degli enti locali firmano l’adesione al finanziamento europeo (fondi POR Puglia 2000-2006) di 1,5 milioni di euro per gli interventi di recupero e la valorizzazione del Parco regionale dell’Ofanto. Nelle parole del sindaco di Canosa, Francesco Ventola, non traspare alcun dubbio sulla realizzazione del parco, e lo stesso comune di Canosa si impegna come comune capofila per l’attivazione delle procedure di acquisizione del finanziamento europeo. Dice Ventola: «Il progetto nasce dalla necessità di tutela del fiume Ofanto, quale maggiore asta fluviale sfociante nel Mare Adriatico a sud del Fiume Reno, ma anche dalla estrema fragilità del suo sistema». Subito dopo la sottoscrizione dei finanziamenti europei, però, tutto il processo vedrà una brusca e inaspettata interruzione.

Il 15 febbraio nella prima conferenza di servizi l’assessorato regionale concede ai comuni gli strumenti necessari per l’elaborazione dello Statuto dell’Ente gestore del parco. Una nuova riunione viene convocata due settimane più tardi, a Barletta, ma già cominciano a serpeggiare i primi malumori tra i sindaci presenti. Pubblicamente, i primi a scoprirsi sono agricoltori e cacciatori. Gli agricoltori, in particolare, pur avendo partecipato alle conferenze di servizi precedenti l’approvazione della legge regionale, criticano soltanto ora l’eccessiva perimetrazione del parco (in realtà, è ampio appena un terzo del contiguo Parco regionale dell’Alta Murgia) e gli eccessivi divieti posti dalla legge regionale sulle attività agricole. Su quest’ultimo punto, tuttavia, la stessa legge regionale e i successivi chiarimenti dell’area tecnica dell’Ufficio Parchi della Regione non lasciano dubbi: gli unici divieti espressi nel testo di legge riguardano il taglio della vegetazione spontanea (ma non la raccolta di funghi), lo scarico di sostanze inquinanti nel fiume, le costruzioni non autorizzate e quelle superiori al 15% di quelle già esistenti (le ristrutturazioni conservative sono quindi concesse), la realizzazione di discariche e di altri impianti a vario titolo inquinanti. È invece concessa la normale prosecuzione delle attività agricole (aratura, concimazione, trattamenti chimici, raccolta), sia con colture esistenti sia con colture diversificate, così come sono fatte salve le attività silvo-pastorali avendo cura di trovare tecniche a basso impatto ambientale, come richiesto espressamente dalle direttive della Comunità europea. Dinanzi a queste regole precise, sancite per legge, che molto più dei paventati danni economici condurrebbero gli agricoltori della zona a una produzione di qualità e anzi con maggiori ricavi, oltre che con un proprio marchio di garanzia (a fronte di una produzione attuale in grande quantità ma a basso prezzo, che porta ogni anno alla distillazione soprattutto di uva da tavola), le amministrazioni comunali preferiranno, da questo momento in poi, accogliere senza batter ciglio tutte le richieste avanzate dalle associazioni di agricoltori senza spendere una parola per informare la cittadinanza sull’importanza di un’ampia perimetrazione del Parco regionale e per giustificare il proprio precedente operato.

I termini della questione, infatti, finiscono per perdersi tra le proteste urlate degli agricoltori, che il 25 febbraio nella sala consiliare di Canosa incontrano il sindaco Francesco Ventola (PdL). Più di due mesi dopo l’approvazione definitiva della legge regionale (passata per uno studio tecnico e partecipato di oltre un anno), e a meno di due mesi di distanza dalle elezioni politiche, il sindaco di Canosa che un mese prima aveva posto le basi per l’acquisizione dei fondi europei per il parco regionale, ora, al cospetto degli agricoltori, afferma: «Sulla istituzione del parco naturale regionale del fiume Ofanto, le diverse Amministrazioni locali stanno valutando ogni possibile percorso che possa portare al superamento dei problemi indotti dai vincoli della legge regionale 37/2007. [...] le amministrazioni dei comuni interessati stanno valutando le iniziative da assumere per la sospensione dei vincoli rivenienti dalla istituzione del Parco ed una sua complessiva ridefinizione», pur accelerando, continua Ventola, le procedure per la costituzione del Consorzio di Gestione, al quale sono affidati i finanziamenti europei. E ancora: «siamo convinti che un parco regionale, anziché nazionale, produce sicuri effetti condizionanti e negativi sugli operatori produttivi». Il voltafaccia del sindaco di Canosa non è, tuttavia, l’unico. Il 5 marzo l’assessore all’ambiente del comune di Barletta, Caterina Di Bitonto (IdV), chiede un «momento di riflessione attenta» ai fini di ripensare la riperimetrazione del parco, in modo da escludere aree «in cui le pratiche colturali hanno da tempo alterato l’ambiente naturale e che pertanto non sono più caratterizzate da pregio naturalistico». Un ragionamento, questo, che se applicato riguarderebbe anche le aree golenali a ridosso dell’alveo del fiume, oggetto dell’inchiesta della procura tranese, e che condurrebbe a un totale affossamento del parco, più che a una semplice riperimetrazione delle aree più esterne. Scendono dunque in campo tutte le associazioni di categoria degli agricoltori, le stesse che erano state coinvolte nel processo di perimetrazione del parco prima dell’approvazione della legge regionale. Il 17 marzo Cia e Acli organizzano un incontro pubblico. Negli stessi giorni, gli aderenti alla Coldiretti dichiarano lo stato di agitazione e promettono «azioni clamorose». Il 25 marzo è il giorno della contestazione a Nichi Vendola, al quale viene impedito di tenere un comizio elettorale.

Il giorno dopo, 26 marzo, il consigliere regionale del PdL Nino Marmo, ex assessore regionale all’agricoltura, scrive: «La pubblica contestazione di Vendola ad opera degli agricoltori barlettani è stata una sacrosanta manifestazione di protesta nei confronti dell’assurda, sterminata perimetrazione del Parco dell’Ofanto. Perimetrazione che in realtà configura una pesantissima confisca generalizzata ai danni del mondo delle campagne di fatto privato delle sue fonti di lavoro e di sostentamento da una forsennata parco-mania, dietro la quale si nasconde l’avversione di sempre dei comunisti a quel diritto fondamentale di libertà ed a quell’insostituibile fattore di sviluppo che è la proprietà privata. Questa vigorosa presa di coscienza degli agricoltori barlettani è servita anche a mettere in luce l’autentico colpo di mano che con tale operazione il Governo più comunista del mondo libero ha posto in essere nei confronti di un territorio le cui rappresentanze istituzionali (come ha confermato tra gli altri il sindaco di Canosa) sono state truffaldinamente bypassate nella definizione di un provvedimento che pure le investe in termini devastanti». Lo stesso consigliere Marmo, tuttavia, all’indomani dell’approvazione della legge regionale in consiglio regionale, aveva dichiarato, con toni assai diversi: «È necessario tutelare un sito pluviale della nostra regione [...]. Non siamo contrari ma dispiaciuti per come nasce». Infatti al momento del voto in aula il consigliere Marmo si era astenuto, anziché votare contro il provvedimento. Inoltre, tutti i comuni interessati, con le loro rappresentanze istituzionali, avevano partecipato fattivamente all’elaborazione del disegno di legge regionale, prima di cambiare idea, nel febbraio, successivamente alle azioni di protesta degli agricoltori.

Il 2 maggio si incontrano in Regione l’assessore Losappio e i rappresentanti istituzionali. La regione si mostra disponibile a rivedere, laddove possibile, i confini del parco. Ma l’obiettivo delle associazioni e dei comitati spontanei, che sembrano a tutti gli effetti tenere sotto scacco le amministrazioni comunali del territorio, è più netto: eliminare dalla superficie del parco l’intera “zona 2”, quella più esterna e di protezione paesaggistica e storico-culturale, in modo da poter continuare le coltivazioni senza vincoli di sostenibilità ambientale. Inoltre, rallentando l’istituzione del Consorzio dell’Ente gestore (da febbraio in poi, tutti gli incontri pubblici sono stati rivolti al tema della riperimetrazione, e non si sono fatti passi avanti nella stesura dello Statuto dell’Ente gestore del Parco), gli stessi coltivatori abusivi delle aree del demanio fluviale hanno la possibilità di continuare a coltivare quei terreni illegalmente occupati. L’eliminazione della “zona 2” dalla superficie del Parco, inoltre, lascerebbe aperta ogni possibilità di edificazione senza regole, di apertura di discariche, di costruzione di impianti inquinanti.

Ma non è tutto: il consiglio comunale di Barletta, riunito in seduta monotematica il 15 maggio, decide di attendere altri 15 giorni per vagliare le indicazioni sulla riperimetrazione «che proverranno dalle associazioni di categoria». Sono effettivamente tre le richieste che arrivano agli uffici comunali da associazioni e comitati spontanei di agricoltori. Ma una quarta richiesta è inviata dall’Arcivescovo di Trani, Barletta e Bisceglie. Qual è la richiesta della Curia locale? Far eliminare dall’area del Parco regionale un appezzamento di terreno sul quale sorge la chiesa di San Ruggiero, ormai pressoché abbandonata a se stessa, in località di Canne della Battaglia, cioè in piena zona già protetta da vincoli architettonici e archeologici e che l’inclusione nell’area parco vorrebbe ulteriormente proteggere. È evidente che nella richiesta della Curia non valgono le ragioni, pur dubbie e sconfessate dallo stesso testo di legge, sulla protezione delle coltivazioni addotte dai coltivatori. Né la Curia è mai intervenuta, in questi mesi, per giustificare la sua richiesta. Appare però evidente che l’esclusione di quel terreno dall’area parco dà il via libera a una sua possibile futura cementificazione o all’inserimento di costruzioni di altra natura che verrebbero meno ai vincoli architettonici posti all’interno dell’area parco. E ancora: nonostante non fosse giunta nessuna richiesta in tal senso da associazioni di coltivatori, l’amministrazione comunale decide unilateralmente di richiedere alla Regione l’eliminazione dall’area parco del villaggio turistico “La Fiumara” e dell’area sottoposta a servitù militare Poligono di Tiro adiacente al villaggio “La Fiumara”. Anche qui, non valgono i dubbi degli agricoltori sui vincoli alle colture: l’unica motivazione possibile è quella di evitare i vincoli di natura architettonica posti dall’area parco. E, dunque, per non porre in futuro alcun limite sull’edificabilità di quei terreni. Infine, lo stesso consiglio comunale delibera «di individuare i propri rappresentanti all’interno degli organi costituenti il Consorzio di Gestione d’intesa con le associazioni agricole locali»: gli stessi agricoltori, dunque, che da decenni, anche attraverso l’occupazione abusiva di terreni demaniali a ridosso dell’alveo del fiume, hanno creato quel degrado ambientale al quale il Parco regionale cerca di porre rimedio. La delibera del consiglio comunale di Barletta viene approvata a maggioranza, con i voti favorevoli anche dei consiglieri Cioce e Dicorato, che in qualità di consiglieri regionali avevano votato a favore del parco regionale nel dicembre 2007, senza aver sollevato alcuna obiezione.

In piena estate, poche righe di un giornale locale riportano questa notizia: «Grassi di origine vegetale o animale: a questo sono addebitabili le chiazze oleose comparse il 22 luglio scorso lungo il corso del fiume Ofanto, nel tratto compreso fra il Ponte romano, in territorio di Canosa di Puglia [...]. A stabilirlo sono stati gli esami sui prelievi compiuti dalle guardie ambientali del nucleo ittico faunistico di Barletta guidate da Pino Cava, da tecnici dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente di Foggia. “Qualcuno – spiega Cava – deve avere pulito in acqua fusti o cisterne usati per la lavorazione dell’olio in oleifici, certo non si tratta di idrocarburi, e non c'è un inquinamento chimico, ma questi grassi hanno bisogno comunque di molto tempo per scomparire”». Nessun commento arriva da parte degli organi istituzionali. Nei primi giorni di ottobre, il braccio di ferro tra la regione e le amministrazioni comunali divenute ormai sistematicamente contrarie al parco segna un decisivo punto a favore di queste ultime. La Regione, nel tentativo di salvaguardare come area parco almeno la “zona 1”, che pure è già posta sotto il vincolo di Sito d’importanza comunitaria, decide di convocare accordi bilaterali con i singoli comuni per prendere atto delle riperimetrazioni. Il comune di Cerignola richiede l’eliminazione di 1.100 ettari sui 4.900 previsti. Il comune di Barletta chiede di ridurre la superficie del suo territorio destinata ad area parco dai 4.500 ettari iniziali a soli 1.500, ancor meno dei 2.000 ettari approvati in Consiglio comunale. L’obiettivo della Regione diventa ora quello di “salvare il salvabile”, davanti alle irremovibili richieste dei comuni, ma l’intero progetto del Parco regionale rischia ora seriamente di subire uno stop definitivo.

Rifiuti tossici: la vera emergenza della Campania

di Vittorio Moccia

Incendi di rifiuti tossici tra Palma Campania e Terzigno. Imperturbabili, nonostante le sbandierate ronde di cittadini, proseguono gli incendi di rifiuti tossici nella zona tra Palma Campania e Terzigno. Le foto allegate dimostrano lo sfacelo ambientale, perpetrato da emeriti delinquenti, criminali incoscienti che antepongono alla salute del prossimo quella delle prorie tasche. Chi, in Campania, attraversa la statale 268 dei paesi vesuviani, non può non rendersi conto, a qualunque ora del giorno, degli incendi che avvengono con impressionante regolarità nella zona. La terra dei fuochi non inizia e non finisce a Giugliano ed il fenomeno dello smaltimento illegale coinvolge da anni l'intera regione, non ultime le zone che parevano immuni da questo vergognoso fenomeno, come l'avellinese. Acerra, Nola, Marigliano, Giugliano, Villaricca, Qualiano, Bacoli, Pianura, Marcianise sono, come ricordato in un recente appello della Carovana della Pace, solo alcuni luoghi simbolo che testimoniano tale disastro. Ricordiamo che lo sversamento e l'incendio di rifiuti tossici provocano gravissimi danni alla salute umana, con conseguenze incalcolabili, sul lungo periodo, in termini di malfornazioni neonatali e tumori devastanti.

Questo massacro ambientale e umano, viene portato avanti, siamo ad oltre 20 anni, dal "sistema", al soldo di imprenditori senza scrupoli che hanno potuto "risparmiare" nello smaltire rifiuti industriali, speculando sulla salute dei cittadini campani: la regione è stata così trasformata nella discarica nazionale degli scarti nocivi prodotti dalle industrie del nord Italia e del resto dell'Europa. Si tratta di una strage silenziosa di cui molti ignorano la portata: in molte zone della Campania, pur non essendovi grossi insediamenti industriali, il livello di pressione ambientale, in termini di inquinamento da diossine, PCB, metalli pesanti, finanche materiale radioattivo, ha raggiunto e superato da tempo quello delle zone più industrializzate d'Italia. Statale 268 dei paesi vesuviani, all'altezza dell'uscita di Terzigno. Denuncia effettuata ai vigili del fuoco. L'incendio di materiale sospetto è quotidiano e visibile a qualunque ora del giorno: riguarda il tratto che va da Terzigno a Palma Campania. Tutto questo avviene nell'indifferenza, se non nella dichiarata impotenza istituzionale, che preferisce spedire scenograficamente truppe militari nella regione per presidiare le città, invece di attuare il controllo delle arcinote direttrici di transito dei trasportatori di rifiuti pericolosi.

giovedì 27 novembre 2008

La corsa del petrolio mette in luce le paure delle regioni italiane

di Guy Dinmore

Aridi deserti nascondono il patrimonio petrolifero del Medio Oriente, distese ghiacciate coprono quello della Russia. Sfortunatamente per gli abitanti della Basilicata, il giacimento petrolifero sulla terraferma più grande d'Europa giace sotto foreste, terreni agricoli e antiche comunità.

Lupi, cervi e a volte orsi vagano tra le montagne diventate parco nazionale, dove il rumore degli impianti petroliferi sale tra le cime degli alberi in stridente contrasto. Canali scavati tra querce e faggi portano gli oleodotti fino al complesso di Viggiano, dove i gas vengono separati e il greggio trasportato per altri 130 Km fino a una raffineria. L'odore di zolfo si fa strada fino ai paesi di origine medievale sulle colline, dove le finestre con le serrande abbassate e i muri fatiscenti sono la testimonianza di una popolazione in fuga. Non sorprende che gli ambientalisti e i residenti siano preoccupati per il progetto delle compagnie petrolifere -Eni, Total, Shell e Esso- di raddoppiare la produzione ricavata da un'area altamente redditizia e di arrivare a coprire il 10% del fabbisogno totale italiano nel giro di qualche anno.

Gli attivisti si sono duramente battuti per 15 anni per far istituire un parco nazionale nella zona della Val d'Agri. La legge è finalmente entrata in vigore lo scorso marzo, vietando così l'estrazione mineraria. Nel frattempo Eni, il gigante dell'energia in parte di proprietà dello Stato, ha già costruito una mezza dozzina di teste di pozzo all'interno del parco e in numero maggiore al di fuori. Le preoccupazioni sono aumentate questo mese quando Stefania Prestigiacomo, Ministro dell'ambiente ed industriale, ha scartato la scelta del guardiano del parco fatta dall'amministrazione regionale e ha nominato un commissario di sua scelta. Il governo di centro-destra di Silvio Berlusconi sta inoltre preparando una legge che toglierebbe alle regioni come la Basilicata il diritto di veto sui progetti per la costruzione di infrastrutture. L'obiettivo è quello di porre rimedio alla reputazione italiana da "non nel mio giardino" nei confronti degli investitori stranieri.

"Non possiamo rimanere bloccati per anni, aspettando un'approvazione che potrebbe non arrivare," dice Claudio Descalzi, presidente di Assomineraria, un'associazione di compagnie petrolifere e minerarie. L'industria vuole che la trafila per ottenere le autorizzazioni sia chiara e breve, continua Descalzi, che è anche Direttore Generale della Divisione Esplorazione e Produzione di Eni. Il vento ha cominciato a girare dalla parte dei grandi progetti industriali quando (il partito dei) i Verdi, i cui membri erano delle figure chiave all'interno del precedente governo di centro-sinistra e che erano accusati di bloccare la maggior parte dei progetti, sono stati sconfitti alle elezioni dello scorso aprile. I politici locali sono per la maggior parte favorevoli ai progetti di espansione. Chi è contrario afferma invece che la loro coscienza è stata zittita da consistenti percentuali sugli utili elargite da Eni. Se da una parte costituisce un introito per le regioni povere, dall'altra il denaro dà luogo al "clientelismo" [in italiano nel testo, N.d.T.] - raccomandazioni di politici - e non è sempre ben speso.

Nonostante le promesse di posti di lavoro e di investimenti, il paese di Grumento Nova ha perso un quarto dei suoi abitanti. La gente del posto indica come causa della migrazione l'inquinamento prodotto dal vicino complesso di Viggiano e la mancanza di lavoro. Pino Enrico Laveglia, il medico locale, sta facendo causa a Eni per quello che ritiene essere un significativo aumento del numero di infezioni alle vie respiratorie e di tumori causati dall'inquinamento. "L'arrivo di questi signori ha portato a un disastro ambientale", dice. "Una volta qui non c'era la nebbia. Adesso c'è della polvere azzurrognola e non viene dalle fate dei boschi." Ma non ha speranze di vincere la causa e dice che la gente è troppo remissiva e divisa da vecchie diatribe per protestare. Le persone del posto tendono a raccontare la stessa storia – i giovani se ne vanno in cerca di lavoro, sindaci corrotti sprecano le percentuali sugli utili e l'inquinamento corrode i pilastri dell'agricoltura e del turismo. Le grandi aspettative create quando la produzione di petrolio è cominciata in maniera significativa circa 10 anni fa non sono state soddisfatte. Pochi ripongono fiducia nel sistema di monitoraggio dell'inquinamento. Sorridendo cupamente dicono che la Basilicata si è "sacrificata" per il resto d'Italia ma che i loro connazionali non lo sanno. Una gallina dalle uova d'oro per le compagnie petrolifere e i governi, l'incremento dell'attività di estrazione sembra inevitabile.

I costi delle attività di Eni ammontano a meno di 2,3 euro al barile, e a circa 6,3 euro compreso l'aumento della produzione. Le royalties pagate alla regione sono stimate al 7% dei prezzi di mercato di cui il 15% va alle amministrazioni locali. Eni afferma che alla fine del 2007 ha speso 368 milioni di euro, con una produzione lorda del valore di 5,2 miliardi di euro circa. Eni, insieme a Shell Italia, produce circa 75.000 barili al giorno in Basilicata. La produzione è destinata ad aumentare fino a 104.000 barili al giorno nel 2010. In un secondo momento, in attesa dell'approvazione ufficiale, ci potrebbe essere un ulteriore aumento di 30.000 barili al giorno. Eni fa sapere che tutti i nuovi pozzi saranno situati al di fuori dei confini del parco nazionale e che il livello di inquinamento è al di sotto (non supera) dei limiti imposti dall'Unione Europea. Le teste di pozzo saranno collocate nel sottosuolo, una volta completate le trivellazioni esploratorie. Total, Shell e Esso hanno anche il permesso di trivellare e di costruire un polo di estrazione, con la possibilità di raggiungere una produzione di 50.000 barili al giorno nel 2011.

In Italia il consumo di petrolio sta lentamente diminuendo ed è sceso fino a raggiungere 1.750.000 barili al giorno nel 2007. Gli studiosi affermano che facendo nascere false speranze e non illustrando le conseguenze, gli affari e i politici hanno creato tra la gente un clima di diffidenza nei confronti delle autorità che durerà per lungo tempo. Il conseguente senso di rimpianto e di sfiducia è difficile da dissipare mediante il dialogo. Ad esempio, gli epidemiologi sostengono che i casi di cancro non possono essere sorti in soli 10 anni a causa dell'industria petrolifera. I sociologi affermano che buona parte del sud Italia vive il fenomeno dell'emigrazione. Giovanni Figliuolo, docente dell'università della Basilicata, ha rivelato che un'accurata ricerca sulla biodiversità condotta sulle attività di Eni ha concluso che l'impatto sulle zone circostanti è stato minimo e che è persino possibile che l'industria dell'energia, con le tecnologie adeguate, abbia un impatto positivo sulla biodiversità della Basilicata. Alla domanda se le ricchezze derivanti dal petrolio siano una benedizione o, come molti affermano, una maledizione, Vito De Filippo, governatore di centro-sinistra della Basilicata che ha appoggiato i progetti di espansione dell'attività petrolifera, ha risposto: "Definirle una maledizione è esagerato. La Basilicata ha dovuto farlo per il bene del paese ma i guadagni e lo sviluppo economico non sono stati quelli che ci aspettavamo."

Intanto una nuova minaccia per questo idillio rurale si profila sotto forma di un progetto per una discarica per le scorie nucleari, necessaria a rilanciare l'industria nucleare italiana. L'intenzione di Roma di privare le regioni della possibilità di veto ne faciliterebbe il processo. "Sarebbe un atto di guerra" dice De Filippo "dovrebbero farlo usando le armi."

giovedì 23 ottobre 2008

E' al colmo la feccia...

di Alex Zanotelli

"...è con la rabbia in corpo che vi scrivo questa lettera dai bassi di Napoli, dal Rione Sanità nel cuore di quest'estate infuocata. La mia è una rabbia lacerante perché oggi la Menzogna è diventata la Verità. Il mio lamento è così ben espresso da un credente ebreo nel Salmo 12...Solo falsità l'uno all'altro si dicono:bocche piene di menzogna, tutti a nascondere ciò che tramano in cuore.Come rettili strisciano,e i più vili emergono,è al colmo la feccia."

Quando, dopo Korogocho, ho scelto di vivere a Napoli, non avrei mai pensato che mi sarei trovato a vivere le stesse lotte. Sono passato dalla discarica di Nairobi, a fianco della baraccopoli di Korogocho alle lotte di Napoli contro le discariche e gli inceneritori. Sono convinto che Napoli è solo la punta dell'iceberg di un problema che ci sommerge tutti. Infatti, se a questo mondo, gli oltre sei miliardi di esseri umani vivessero come viviamo noi ricchi (l'11% del mondo consuma l'88% delle risorse del pianeta!) avremmo bisogno di altri quattro pianeti come risorse e di altro quattro come discariche ove buttare i nostri rifiuti. I poveri di Korogocho, che vivono sulla discarica, mi hanno insegnato a riciclare tutto, a riusare tutto, a riparare tutto, a rivendere tutto, ma soprattutto a vivere con sobrietà.

E' stata una grande lezione che mi aiuta oggi a leggere la situazione dei rifiuti a Napoli e in Campania, regione ridotta da vent'anni a sversatoio nazionale dei rifiuti tossici. Infatti esponenti della camorra in combutta con logge massoniche coperte e politici locali, avevano deciso nel 1989, nel ristorante "La Taverna" di Villaricca", di sversare i rifiuti tossici in Campania. Questo perché diventava sempre più difficile seppellire i nostri rifiuti in Somalia. Migliaia di Tir sono arrivati da ogni parte di Italia carichi di rifiuti tossici e sono stati sepolti dalla camorra nel Triangolo della morte (Acerra-Nola-Marigliano), nelle Terre dei fuochi (Nord di Napoli) e nelle campagne del Casertano. Questi rifiuti tossici "bombardano" oggi, in particolare i neonati, con diossine, nanoparticelle che producono tumori, malformazioni, leucemie.

Il documentario Biutiful Cauntri esprime bene quanto vi racconto. A cui bisogna aggiungere il disastro della politica ormai subordinata ai potentati economici-finanziari. Infatti questa regione è stata gestita dal 1994 da 10 commissari straordinari per i rifiuti, scelti dai vari governi nazionali che si sono succeduti. (E' sempre più chiaro, per me, l'intreccio fra politica, potentati economici-finanziari, camorra, logge massoniche coperte e servizi segreti!). In 15 anni i commissari straordinari hanno speso oltre due miliardi di euro, per produrre oltre sette milioni di tonnellate di "ecoballe", che di eco non hanno proprio nulla: sono rifiuti tal quale, avvolti in plastica che non si possono nè incenerire (la Campania è già un disastro ecologico!) né seppellire perché inquinerebbero le falde acquifere. Buona parte di queste ecoballe, accatastate fuori la città di Giugliano, infestano con il loro percolato quelle splendide campagne denominate "Taverna del re ".
E così siamo giunti al disastro ! Oggi la Campania ha raggiunto gli stessi livelli di tumore del Nord-Est, che però ha fabbriche e lavoro.Noi, senza fabbriche e senza lavoro, per i rifiuti siamo condannati alla stessa sorte. Il nostro non è un disastro ecologico -lo dico con rabbia- ma un crimine ecologico, frutto di decisioni politiche che coprono enormi interessi finanziari. Ne è prova il fatto che Prodi , a governo scaduto, abbia firmato due ordinanze: una che permetteva di bruciare le ecoballe di Giugliano nell'inceneritore di Acerra, l'altra che permetteva di dare il Cip 6 (la bolletta che paghiamo all'Enel per le energie rinnovabili) ai 3 inceneritori della Campania che "trasformano la merda in oro - come dice Guido Viale - Quanto più merda, tanto più oro!"

Ulteriore rabbia quando il governo Berlusconi ha firmato il nuovo decreto n.90 sui rifiuti in Campania. Berlusconi ci impone, con la forza militare, di costruire 10 discariche e quattro inceneritori. Se i 4 inceneritori funzionassero, la Campania dovrebbe importare rifiuti da altrove per farli funzionare. Da solo l'inceneritore di Acerra potrebbe bruciare 800.000 tonnellate all'anno! E' chiaro allora che non si vuole fare la raccolta differenziata, perché se venisse fatta seriamente (al 70 %),non ci sarebbe bisogno di quegli inceneritori. E' da 14 anni che non c'è volontà politica di fare la raccolta differenziata. Non sono i napoletani che non la vogliono, ma i politici che la ostacolano perché devono ubbidire ai potentati economici-finanziari promotori degli inceneritori. E tutto questo ci viene imposto con la forza militare vietando ogni resistenza o dissenso, pena la prigione. Le conseguenze di questo decreto per la Campania sono devastanti."Se tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge (articolo 3 della Costituzione), i Campani saranno meno uguali, avranno meno dignità sociale, così afferma un recente Appello ai Parlamentari Campani. Ciò che è definito "tossico" altrove, anche sulla base normativa comunitaria, in Campania non lo è; ciò che altrove è considerato "pericoloso" qui non lo sarà. Le regole di tutela ambientale e salvaguardia e controllo sanitario, qui non saranno in vigore. La polizia giudiziaria e la magistratura in tema di repressione di violazioni della normativa sui rifiuti, hanno meno poteri che nel resto d'Italia e i nuovi tribunali speciali per la loro smisurata competenza e novità, non saranno in grado di tutelare, come altrove accade, i diritti dei Campani".

Davanti a tutto questo, ho diritto ad indignarmi. Per me è una questione etica e morale. Ci devo essere come prete, come missionario. Se lotto contro l'aborto e l'eutanasia, devo esserci nella lotta su tutto questo che costituisce una grande minaccia alla salute dei cittadini campani. Il decreto Berlusconi straccia il diritto alla salute dei cittadini Campani. Per questo sono andato con tanta indignazione in corpo all'inceneritore di Acerra, a contestare la conferenza stampa di Berlusconi, organizzata nel cuore del Mostro, come lo chiama la gente. Eravamo pochi, forse un centinaio di persone. (La gente di Acerra, dopo le botte del 29 agosto 2004 da parte delle forze dell'ordine, è terrorizzata e ha paura di scendere in campo). Abbiamo tentato di dire il nostro no a quanto stava accadendo. Abbiamo distribuito alla stampa i volantini: "Lutto cittadino. La democrazia è morta ad Acerra. Ne danno il triste annuncio il presidente Berlusconi e il sottosegretario Bertolaso." Nella conferenza stampa (non ci è stato permesso parteciparvi !) Berlusconi ha chiesto scusa alla Fibe per tutto quello che ha "subito" per costruire l'inceneritore ad Acerra! (Ricordo che la Fibe è sotto processo oggi!). Uno schiaffo ai giudici! Bertolaso ha annunciato che aveva firmato il giorno prima l'ordinanza con la Fibe perché finisse i lavori! Poi ha annunciato che avrebbe scelto con trattativa privata, una delle tre o quattro ditte italiane e una straniera , a gestire i rifiuti. Quella italiana sarà quasi certamente la A2A (la multiservizi di Brescia e Milano) e quella straniera è la Veolia, la più grande multinazionale dell'acqua e la seconda al mondo per i rifiuti. Sarà quasi certamente Veolia a papparsi il bocconcino e così, dopo i rifiuti, si papperà anche l'acqua di Napoli. Che vergogna! E' la stravittoria dei potentati economici-finanziari, il cui unico scopo è fare soldi in barba a tutti noi che diventiamo le nuove cavie. Sono infatti convinto che la Campania è diventata oggi un ottimo esempio di quello che la Naomi Klein nel suo libro Shock Economy, chiama appunto l'economia di shock! Lì dove c'è emergenza grave viene permesso ai potentati economico-finanziari di fare cose che non potrebbero fare in circostanze normali. Se funziona in Campania, lo si ripeterà altrove. (New Orleans dopo Katrina insegna!).

E per farci digerire questa pillola amara, O' Sistema ci invierà un migliaio di volontari per aiutare gli imbecilli dei napoletani a fare la raccolta differenziata, un migliaio di alpini per sostenere l'operazione e trecento psicologi per oleare questa operazione! Ma a che punto siamo arrivati in questo paese!?! Mi indigno profondamente! E proclamo la mia solidarietà a questo popolo massacrato! "Padre Alex e i suoi fratelli" era scritto in una fotografia apparsa su Tempi (inserto di La Repubblica ). Sì , sono fiero di essere a Napoli in questo momento così tragico con i miei fratelli (e sorelle) di Savignano Irpino,espropriati del loro terreno seminato a novembre, con i miei fratelli di Chiaiano, costretti ad accedere nelle proprie abitazioni con un pass perchè sotto sorveglianza militare.

Per questo, con i comitati come Allarme rifiuti tossici, con le reti come Lilliput e con tanti gruppi, continueremo a resistere in Campania. Non ci arrenderemo. Vi chiedo di condividere questa rabbia, questa collera contro un Sistema economico-finanziario che ammazza ed uccide non solo i poveri del Sud del mondo, ma anche i poveri nel cuore dell'Impero. Trovo conforto nelle parole del grande resistente contro Hitler, il pastore luterano danese, Kaj Munk ucciso dai nazisti nel 1944: "Qual è dunque il compito del predicatore oggi? Dovrei rispondere: fede, speranza e carità. Sembra una bella risposta. Ma vorrei dire piuttosto: coraggio. Ma no, neppure questo è abbastanza provocatorio per costituire l'intera verità...Il nostro compito oggi è la temerarietà. Perchè ciò di cui come Chiesa manchiamo non è certamente né di psicologia né di letteratura. Quello che a noi manca è una santa collera."
Davanti alla Menzogna che furoreggia in questa regione campana, non ci resta che una santa collera. Una collera che vorrei vedere nei miei concittadini, ma anche nella mia Chiesa. “I simboli della Chiesa Cristiana sono sempre stati il leone, l'agnello, la colomba e il pesce -diceva sempre Kaj Munk- Ma mai il camaleonte."

Vi scrivo questo al ritorno della manifestazione tenutasi nelle strade di Chiaiano, contro l'occupazione militare della cava. Invece di aspettare il giudizio dei tecnici sull'idoneità della cava, Bertolaso ha inviato l'esercito per occuparla. La gente di Chiaiano si sente raggirata, abbandonata e tradita. Non abbandonateci. E' questione di vita o di morte per tutti. E' con tata rabbia che ve lo scrivo. Resistiamo!